EDITORIALE – Ho sempre pensato che quando una parola è troppa e due sono poche, la miglior scelta è il silenzio, perché le parole devono essere sempre utili. Viva il Collio (Bianco), dunque, purché non se ne parli. A convincermi sono stati gli ultimi quattro giorni trascorsi in Friuli Venezia Giulia, per un press tour dal sapore poco italiano e molto internazionale (per merito del nuovo ufficio stampa guidato dalla sempre ottima Federica Schir). Si è trattato di una di quelle quelle rare occasioni in cui i giornalisti invitati si sono sentiti liberi di esprimere opinioni sincere al cospetto dei produttori (anzi, sono stati invitati a farlo) in un settore che va in tutt’altra direzione (se non lodi e imbrodi Consorzi e aziende ospitanti non vieni più invitato e tanti, tra cui non figura ovviamente il sottoscritto, si sono piegati a questa perversa logica che ha ormai reso acritica la critica italiana di settore).
Certo, la premessa è che bisogna avere qualcosa da dire (garbatamente, si sottintende). E che quel “qualcosa” debba essere presumibilmente sensato. Il mio invito al silenzio sul Collio Bianco, indirizzato ai produttori locali, è dettato dalla tormentata storia di questa “tipologia”, che riguarda aspetti a mio avviso secondari all’interno di una denominazione ormai ben nota a livello nazionale e internazionale, come quella friulana. Esperti e meno esperti collocano, a buona ragione, il Friuli Venezia Giulia tra i migliori produttori nazionali di vini bianchi (spesso ci si dimentica dei grandissimi rossi friulani, ma questa è un’altra storia!).
I più “studiati” sanno poi che il “Collio” (o “Collio Bianco”) è, da disciplinare, la tipologia «riservata ai vini bianchi ottenuti da uve provenienti dai vigneti composti, in ambito aziendale, da una o più varietà del corrispondente colore tra i vitigni Chardonnay, Malvasia istriana, Picolit, Pinot bianco, Pinot grigio, Ribolla gialla, Riesling renano, Riesling italico, Sauvignon e Friulano / Tocai friulano, Müller Thurgau e Traminer aromatico», con gli ultimi due che, tuttavia, «non possono superare il 15% del totale».
“UVE” E “COLLIO (BIANCO)”: UN ERRORE
Quanto all’etichettatura, scrivere “Bianco” accanto alla parola “Collio” è facoltativo, mentre è obbligatorio scrivere “Rosso” nella versione che interessa uvaggi di varietà a bacca rossa. Un elemento non secondario, quest’ultimo, nel mio ragionamento sull’opportunità di promuovere il Collio (Bianco) in maniera unitaria, indipendentemente dalle scelte aziendali (alla base del mio “invito al silenzio”). Sul territorio, di fatto, si è riaperta da ormai due anni l’infinita querelle sull’opportunità di utilizzare solo uve autoctone per la produzione del Collio Bianco, considerato a buona ragione il vino bandiera del territorio (caduto in disgrazia, negli anni – va detto – per la scelta di troppi di utilizzare “uve di scarto” per dare vita al blend).
Quattro produttori, a partire dal 2021 (oggi sono 7) hanno infatti deciso di iniziare a pubblicizzare il loro progetto che vede protagoniste le varietà autoctone, anche sull’etichetta: “Vino da uve autoctone“, si legge sotto la scritta “Collio“. A mio avviso, un errore. Dagli assaggi effettuati in passato, nonché dai nuovi, numerosi calici degustati in occasione dell’ultimo press tour (la maggior parte dei quali alla cieca), il Collio si è confermato una delle regioni vinicole italiane dalla più marcata identità intrinseca. Una di quelle regioni in cui il territorio vince sempre sulla varietà, per certi versi plasmandola a propria immagine somiglianza.
Mineralità, sapidità, tensione acido-fresca e una certa struttura “rocciosa” di fondo, fanno dei vini bianchi del Collio dei veri e propri cecchini, anche al cospetto di rinomatissime denominazioni internazionali. I vini del Collio, oggi, hanno tutte le carte in regola per sfondare, con la giusta promozione e posizionamento, in tutti i principali mercati internazionali (dove, tra l’altro, qualche scandalo ne ha offuscato l’immagine). Dotati di una bottiglia consortile unica, la “Collio Collio”, non sono generalmente economici; ma costituiscono esattamente quello che cerca il consumatore più accorto al giorno d’oggi: vini autentici, specchio di terroir e territori unici. Non di “uve uniche”.
COLLIO DA UVE AUTOCTONE? PRIMA DECIDA, UNITO, IL TERRITORIO
Quel terroir è il Collio, al quale si sono ormai “inchinate” tutte le varietà previste dalla base ampelografica del disciplinare. Vince sempre lui, il suolo, che emerge sempre più, col trascorrere degli affinamenti, dando tratti unici e riconoscibili, tanto ai vini varietali quanto agli uvaggi. Nominare la parola “uva” su un’etichetta di “Collio” / “Collio Bianco” significa fare un sgambetto a un suolo che domina intrinsecamente la varietà. Vuol dire fare 10 passi indietro sul fronte del marketing territoriale, costringendo il consumatore a interrogarsi su quale “Collio” / “Collio Bianco” sia migliore (o peggiore) e non – come da obiettivi dei promotori del “Collio – Vino da uve autoctone” – sia “più territoriale”. Perché entrambi lo sono!
Intendiamoci, però. Quella dei 6 vignaioli del “progetto autoctoni” (Cantina Produttori Cormòns, Edi Keber, Terre del Faet, Muzic, Fabian Korsic e Maurizio Buzzinelli) è una campagna buona e giusta, mossa (voglio sperare e credere) dal solo desiderio di tornare al “Collio” originario, frutto dell’assemblaggio delle 3 uve locali Ribolla Gialla, Tocai Friulano e Malvasia istriana presenti nello stesso vigneto, come da disciplinare antecedente le modifiche degli anni Novanta, che hanno dato il via libera al congiunto utilizzo delle varietà internazionali.
Per tornare a parlarne, magari incontrando a tal proposito la stampa nazionale e internazionale – ma solo a cose fatte – sarebbe buono e giusto trovare prima la quadra sul territorio. Decidere, cioè, una volta per tutte, se il “Collio” va bene così com’è, o se il “Collio” (Bianco) debba essere solo un “Vino da uve autoctone”. Parlarne, oggi, così, è inutile. Controproducente. Sbagliato. Confusionario. A maggior ragione se, persino nella gamma dei proponenti, sono presenti entrambe le “versioni”. Viva il Collio (Bianco), dunque. Purché non se ne parli, prima di aver deciso – tutti insieme, in Collio – cos’è. Prosit.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.