Etichette del vino “sessiste”: la battaglia di Marilena Barbera

Altro che la menzione “vigna”, che tanto fa discutere in merito alla nuova linea di vini di Gerry Scotti. In Italia, le regole sull’etichettatura dei vini, sono “sessiste”. Lo denuncia Marilena Barbera, appassionata viticoltrice siciliana che dall’inizio del mese ha intrapreso una battaglia contro il divieto all’utilizzo della parola “viticoltrice” sulle etichette dei vini. Marilena produce vini “naturali” e scrive a mano l’etichetta di uno dei vini simbolo della sua cantina.

“Me ne stavo al tavolo del soggiorno a scrivere ‘Imbottigliato dal viticoltore’ sulle bottiglie di Ammàno, il mio vino bianco prodotto da uve Zibibbo, selezionate e raccolte senza ausilio di macchinari in vigneto. Più scrivevo, più mi sembrava strano pensare a me stessa al maschile. E allora, fra la settantaquattresima e la settantacinquesima etichetta, ho deciso che avrei dovuto scrivere ‘viticoltrice’. Perché questo sono io: una donna che coltiva la vite per raccoglierne uva da trasformare in vino. Solo che la legge non lo prevede. E non prevede nemmeno che le diciture obbligatorie sulle etichette dei vini possano essere manipolate”.

La legge, ricorda Marilena Barbera, “prevede esclusivamente diciture al maschile perché per secoli la società di cui la legge è espressione ha considerato il lavoro fuori casa, per il quale è prevista una tutela o una disciplina, esclusivo appannaggio degli uomini”. “Fin qui nulla di male – aggiunge la viticoltrice – la legge è lo specchio dei tempi in cui viene emanata, quindi può essere cambiata. E secondo me è proprio arrivato il tempo di cambiarla, magari partendo dalla semplice constatazione che in Italia esistono anche viticoltrici oltre che viticoltori, e che non c’è nulla di straordinario in questo”.

“BISOGNA CAMBIARE LA LEGGE”
Marilena Barbera, poi, rincara la dose. “La cosa straordinaria – dichiara – è che una cosa assolutamente normale, come chiamare i mestieri svolti dalle donne con un termine declinato al femminile, dà molto fastidio. Soprattutto agli uomini. I commenti al post che ho scritto su FB dopo aver preso questa decisione mi hanno rivelato due cose: intanto, che un termine femminile utilizzato per descrivere il lavoro che faccio ‘suona male’. Poi, riflettendoci, ho pensato che suona male perché in Italia nel 2017 non è ancora accettabile che una donna possa svolgere un lavoro per secoli ritenuto esclusivamente maschile”.

“Suona male – aggiunge la produttrice siciliana – che una donna voglia veder riconosciuto il proprio ruolo e il proprio lavoro a parità di condizioni e con pari dignità. Suona male che una donna non voglia limitarsi a fare le foto per la brochure, ad andare alle fiere in tailleur e tacchi alti, e magari ad accogliere gli ospiti in cantina, ma abbia anche la velleità di farlo, il vino. E soprattutto, suona male che pretenda che questo ruolo le venga riconosciuto. Anche dalla legge”.

“La seconda cosa rivelata dai commenti a quel post – continua Marilena Barbera – è che una cosa per me così normale per molti non lo è affatto. Mi è stato detto, nell’ordine: 1) che credere ancora alla necessità delle quote rosa sia lunare; 2) che quello che faccio sia mistificare la realtà, suggerendo che esista un conflitto tra generi o una discriminazione esercitata a danno delle donne; 3) che mi dedico a battaglie capziose; 4) che esercito un ‘boldrinismo’ di retroguardia. Ed altre amenità del genere”.

“Non ho mai pensato di scendere in piazza con i cartelli – chiosa la viticoltrice – a scandire slogan come ‘L’utero è mio e me lo gestisco io’. Però a pensarci bene sì, credo che esista un atteggiamento maschilista e discriminatorio. Credo che esista una parte della nostra società per la quale denigrare, ridicolizzare, sminuire, ostacolare il lavoro delle donne e negare loro diritti quali parità di accesso, di retribuzione, di carriera non è affatto un problema, ma la regola. Una parte della nostra società, e una consistente e molto autorevole parte di questo nostro mondo del vino, ritiene che le donne esistano solo in quanto ‘figlie di’ o ‘mogli di’. Ed è l’unico ruolo che ad esse accetta di riconoscere”.

Marilena Barbera, a tal proposito, cita un esempio lampante. “Acquistando una copia della Guida ai Migliori 100 vini e vignaioli d’Italia, edita dal Corriere della Sera, scritta da due professionisti della comunicazione del vino, un famoso giornalista e un famoso sommelier, mi sono accorta che il premio a ‘La Donna del Vino’ è stato assegnato a Elda Felluga con la motivazione che è ‘figlia di uno straordinario vignaiolo’. Nessun cenno alle sue capacità, che di certo ci saranno e saranno importanti, nessun cenno al lavoro che sicuramente ha svolto e continua a svolgere nell’azienda della sua famiglia. Nessun cenno alla sua formazione, alle sue scelte personali, alle esperienze professionali, tutte cose che la rendono una grande donna e un’imprenditrice meritevole di riconoscimenti. Elda Felluga, in quella descrizione, esiste solo ed esclusivamente in quanto figlia di suo padre.
Se non è sessismo questo”.

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