L’Armenia del vino è risorta: fotografia dalla periferia del mondo

Reportage esclusivo nel Caucaso meridionale, culla della viticoltura internazionale con i suoi 350 vitigni autoctoni, le altitudini proibitive e i suoli vulcanici

L'Armenia del vino è risorta fotografia dalla periferia del mondo
«Vedi l’asfalto nuovo di zecca? Lo hanno appena steso, in tutto il quartiere. Ho vissuto qui più di 30 anni e c’è sempre stata la polvere…». Si avverte ancora l’odore del catrame davanti alla casa in cui Aram Machanyan è cresciuto e ha visto trasformarsi in realtà il sogno di diventare produttore di vino in Armenia. Inizia a imbrunire nella periferia della capitale Yerevan. I profumi che si mescolano nell’aria, ancora calda, sembrano un tuffo nelle tazze di tè locali.

La luce dei lampioni illumina quattro ragazzini che hanno trasformato la via in un campo di pallavolo, tirando una corda bianca da una parte all’altra della strada, a un metro e mezzo d’altezza. Ora che c’è l’asfalto è più semplice mantenere l’equilibrio ed evitare di sbucciarsi le ginocchia. L’Armenia del vino, nel 2023, assomiglia tutta al frammento di una storia di periferia catturata per caso, più con l’anima che con gli occhi. A metà ottobre.

È il frutto di visone, investimenti. Attaccamento alla vita e voglia di riscatto. È coraggio ed è follia. Come quella volta in cui Aram e i fratelli Samvel e Hrachya hanno preso l’auto e si sono diretti in Turchia, per cercare il vigneto appartenuto al capostipite Gevorg Machanyan, superstite del genocidio del 1915 che lo costrinse ad abbandonare la terra natia (da profugo). E ricominciare da capo, nell’attuale capitale armena.

Da quelle barbatelle, rinvenute tra rocce e sterpaglie, è nato un nuovo, micro vigneto. Pochi filari, al centro del cortile della casa di Yerevan che è stata teatro dei primi esperimenti di vinificazione “garagista” dei fratelli Machanyan, oggi sul mercato con il prestigioso brand di vini naturali Alluria Wines. L’ultima creazione è “The Beast“, “La Bestia”. Un vino “fortificato” di cui poco si sa. E poco, in fondo, serve sapere: «Deve stupire chi ha il coraggio di avvicinarcisi, superato il Rubicone del pregiudizio», taglia corto Samvel.

IL RINASCIMENTO DEL VINO ARMENO

È un Rinascimento silenzioso ma fiero, quello del vino armeno. Nelle cantine del Paese, piene zeppe di macchinari italiani – dalle vasche d’acciaio alle presse, passando per i filtri e le diraspatrici di un noto brand del Veneto – nonché di consulenti agronomi ed enologi provenienti dal Bel Paese, si respira l’aria rarefatta di una bolla appannata, in cui si corre con fiducia verso il traguardo, pur non smettendo mai di guardarsi le spalle. Entusiasmo e timore si mescolano a fronte dei numerosi riconoscimenti internazionali conquistati dalle cantine armene nell’ultimo decennio, soffocati dall’instabilità di una nazione sovrana costantemente sotto attacco. Su più fronti.

Ad Est, la superiorità militare dell’Azerbaijan e il silenzio immobile di Europa e Stati Uniti di fronte alla vergogna della pulizia etnica, è costata l’abbandono forzato della regione del Nagorno-Karabakh a 100 mila armeni, sul finire di settembre 2023. L’enorme schiera di profughi lasciati senza casa, cibo e vestiti da Baku e dal suo presidente Ilham Aliyev è il volto più tragico dell’ennesimo conflitto che obbliga il Paese a rimboccarsi le maniche. Senza piangersi addosso. E a farne le spese è anche il settore del vino, già alle prese con la ricerca di nuovi sbocchi di mercato, vista l’ormai scarsa affidabilità del partner principale (la Russia).

Dall’occupato Nagorno-Karabakh, noto anche col nome di Artsakh, proviene gran parte del legno utilizzato per la produzione di barrique e tonneau armene, capaci di sposare alla perfezione i caratteri di vitigni autoctoni a bacca rossa come Haghtanak e Sev Areni; oltre a conferire grassezza e stratificazione ad uve bianche autoctone come Kangoun e Voskehat. Proprio dai territori annessi dall’Azerbaijan nel silenzio complice della comunità internazionale proviene un imprenditore vitivinicolo che è considerato un eroe, in Armenia: Grigori Avetissyan.

L’ABBANDONO FORZATO DEI VIGNETI IN ARTSAKH (NAGORNO-KARABAKH)

Costretto a lasciare la propria cantina in Artsakh nel 2020, dopo aver combattuto in prima linea contro l’avanzamento delle truppe azere nel villaggio di Togh, questo partigiano-vignaiolo ha trasferito l’attività produttiva del suo Domaine Avetissyan e del brand Kataro Wines nel Vayots Dzor, per l’esattezza ad Areni. Qui, in una cantina moderna, sotto la supervisione del talentuoso enologo Andrànik Manvelyan, vengono prodotti alcuni tra i migliori vini armeni dalle varietà locali.

In commercio c’è anche l’ultima annata dei vini prodotti con le uve provenienti dall’Artsakh. Dei vigneti e della cantina originaria non resta più nulla. I militari azeri hanno recapitato a Grigori Avetissyan i video dello sversamento delle vasche e delle botti di legno, «nel nome di Allah». Uno sgarro alla prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo (ancora oggi il 95% della popolazione armena, pari a 2,3 milioni di persone, è cristiana). Una ferita aperta nel cuore del produttore, che non smette di credere di poter tornare, un giorno, a coltivare i suoi vigneti nelle terre occupate.

LA FORZA DELLE DONNE ARMENE NEL SETTORE DEL VINO

Nel frattempo, i vignaioli armeni si fanno forza l’un l’altro, uniti sotto al “cappello” della Vine and Wine Foundation of Armenia, la Fondazione della Vite e del Vino armeno che coopera con GizDeutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit, principale agenzia di sviluppo tedesca nel campo della cooperazione internazionale. A guidare l’organismo governativo interprofessionale è Zaruhi Muradyan, donna che ha segnato il cammino di molte produttrici nel Paese del Caucaso meridionale. La sua Zara Wines è diventata un caso all’ingresso sul mercato in Armenia, nel 2012. Da allora, nel settore, l’imprenditoria femminile è esplosa.

Ed oggi non è affatto difficile scoprire che, dietro ai migliori vini armeni, ci sia il tocco di una donna. Su tutte è il caso di Alina Mkrtchyan, co-fondatrice di Voskeni Wines nell’Ararat Valley, che firma un Areni Riserva da favola. Ma anche quello di Arusyak Tadevosyan, winemaker del colosso del brandy Manukyan che, dal 2016, è sotto i riflettori internazionali con i suoi tagli tra le varietà locali e quelle internazionali, in pieno stile bordolese. Oltre a coordinare l’export, cresciuto del 50% tra il 2021 e il 2022, le attività della Vine and Wine Foundation of Armenia si spingono sin dentro il tessuto sociale, con risvolti positivi sui consumatori.

I CONSUMI DI VINO E IL PRIMO WINE BAR DELL’ARMENIA: INVINO

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A dispetto dei trend internazionali, i consumi di vino nel Paese stanno vivendo un momento d’oro. Negli ultimi 7 anni sono passati da 2 a circa 4,5 litri pro capite. Lo sa bene Mariam Saghatelyan, che nel dicembre 2012 ha fondato a Yerevan il primo wine-bar dell’Armenia: InVino. L’ennesima donna di successo sulla scena del vino armeno. «La scelta di aprire un’enoteca con mescita – spiega Mariam, che all’epoca aveva solo 19 anni – è stata rivoluzionaria. Martiros Saryan Street, in cui ci troviamo, era la “via della tecnologia” della capitale; quella in cui comprare computer e affini. Ci abbiamo messo 3 anni a convincere la gente ad entrare, a suon di wine tasting con i migliori produttori e tanta tenacia. Io studiavo di giorno e lavoravo di sera, fino a tardi».

Il locale è cresciuto insieme al livello dei vini armeni. «All’inizio – ammette Mariam Saghatelyan, fresca del titolo di Miglior Sommelier dell’Armenia – avevamo solo 10 vini armeni che consideravamo “bevibili”. Oggi ne abbiamo circa 350 a scaffale. Il problema era la costanza qualitativa tra bottiglie, troppo disomogenea. Difetti ormai risolti, grazie agli investimenti in tecnologia delle nostre cantine. Oltre all’interesse nei confronti dei vini nazionali, noto ora una crescente curiosità per i vini esteri, in particolare orange wine, spumanti, Champagne e vini naturali. Quello che conforta è che in Armenia la gente sta bevendo sempre più vino, in generale. E sta iniziando adesso a familiarizzare con il food pairing».

IL VINO ARMENO CON GLI OCCHI DEGLI INVESTITORI ESTERI

Se è vero che il fermento del vino armeno ha radici profonde come la storia della viticoltura mondiale – la “cantina” più antica del mondo si trova proprio in Armenia, presso il complesso di grotte note col nome di Areni Cave-1, 111 chilometri a sud della capitale Yerevan: tappa obbligata per chiunque voglia toccare con mano la storia del vino e dell’umanità (nella foto in basso) – il Rinascimento dell’enologia armena è dovuto anche agli ingenti investimenti giunti dall’estero. Tra i più illuminati imprenditori stranieri attivi nel Paese c’è lo svizzero Jakob Schuler, volto noto in Italia per le quote di maggioranza di Castello di Meleto a Gaiole in Chianti, in Toscana, nonché per Maison Gilliard a Sion, nella sua Svizzera.

«Ho scoperto l’Armenia dopo la grande delusione avuta in Georgia con il Saperavi – spiega l’imprenditore dal quartier generale della sua Noa Wine, nella regione vinicola di Vayots Dzor – e sono rimasto sorpreso dal lavoro di aziende come Armas, Armenia Wine CompanyVedi-Alco, per le loro dimensioni ragguardevoli e per la modernità delle loro tecnologie. Ma i vini erano prodotti con varietà internazionali. Nel Vayots Dzor ho assaggiato per la prima volta l’Areni, varietà autoctona a bacca rossa che mi ha fatto perdere la testa e per la quale ho deciso di investire in Armenia. Ho iniziato a importare in Svizzera questi vini, per poi convincermi ad acquistare delle terre e stabilire qui una nuova cantina». Noa Wines è l’unica realtà armena che, grazie alla consulenza di professionisti italiani come Valentino Ciarla e Giacomo Sensi, può contare su una vera e propria zonazione dei vigneti.

VARIETÀ AUTOCTONE VS INTERNAZIONALI

Una trentina gli ettari a disposizione, per una produzione che ha lo scopo (ben riuscito) di esaltare al massimo le potenzialità delle varietà autoctone armene – e in particolare dell’Areni – anche grazie al contributo del giovane e promettente winemaker Pavel Vartanyan. Lo spazio per le nuove generazioni di enologi non manca in Armenia. E anche un “mostro sacro” come Karas Wines non fa eccezione. Qui si incontra Gabriel Rogel, argentino, classe 1985, con le idee molto chiare su come dare seguito alle volontà del fondatore Eduardo Eurnekian – imprenditore vitivinicolo di origini armene residente in Argentina – e della nipote Juliana Del Aguila Eurnekian. Il tutto sotto la supervisione di un enologo di fama internazionale: Michel Rolland.

Il progetto enologico di 400 ettari in Armenia, incentrato agli esordi (ben vent’anni fa) più sulle varietà internazionali che su quelle autoctone (le cose, oggi, sono cambiate) è quello che ha aperto la strada al vino armeno in tutto il mondo. Eurnekian punta su un nome, “Karas“, che richiama le tradizionali anfore con le quali viene prodotta una parte del vino in Armenia. Contenitori di terracotta interrati per il 70%, in cui avviene generalmente la fermentazione e, in alcuni casi, l’affinamento. La cantina si trova in un ecosistema unico, circondata da vigneti che affondano le radici in suoli vulcanici. La vista sul monte Ararat, qui, nella regione di Armavir, è mozzafiato.

L’ARMENIA DEL VINO: REGIONI VINICOLE E VARIETÀ

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Del resto, il 70% del territorio armeno è costituito da montagne. Ed è piuttosto comune trovare intere regioni con terreni di matrice vulcanica, nonché vecchie viti a piede franco di età superiore ai 100 anni,
ad altitudini proibitive molto simili a quelle del Sud America. L’altitudine media del vigneto armeno è di 1.200 metri sul livello del mare, con impianti che si spingono anche sopra i 1.800 metri.

Le regioni principali sono cinque: Armavir (900-1100 m), Ararat (800-1000 m), Aragatsotn (900-1.400 m), Tavoush (400-1000 m) e Vayots Dzor (1000-1800 m), per un totale di 13 mila ettari vitati in Armenia. Alla conta andrebbe aggiunta anche la regione vinicola di Syunik, al centro degli interessi dell’Azerbaijan e della Turchia per la creazione del cosiddetto “corridoio Zangezur”.

Viticoltura fiorente anche attorno alla capitale Yerevan, considerabile un areale a sé stante e un vero e proprio laboratorio per le nuove cantine, grazie all’attività contoterzista di cantine urbane-incubatore come Wine Works Company. Il ruolo di questa firma, fondata dall’illuminato imprenditore armeno Vahe Keushguerian, è centrale anche sul fronte agronomico, per la gestione di due vigneti sperimentali – ad Astghadzor e Khramort – utili alla salvaguardia e allo sviluppo dello straordinario patrimonio ampelografico armeno.

DALLA POLVERE AL CEMENTO: IN ARMENIA 350 VARIETÀ DI VITE AUTOCTONE

Già perché sono circa 350 le varietà autoctone armene oggi identificate, di cui 55 ampiamente coltivate (30 bianche, 25 rosse). Trentuno vengono utilizzate per la vinificazione, 21 per la produzione di uva da tavola e 3 per quella dell’uva passa. Le più note sono Sev Areni, Voskehat, Kangoun, Haghtanak, Milagh, Lalvari, Khatoun Kharji e Khndoghni (Sireni). Splendida, in particolare, la versatilità dell’Areni. Un’uva in grado di dare vini rossi freschi e beverini, tanto quanto rossi strutturati e corposi – pur elegantissimi – grazie alla vinificazione in legno. Una varietà che ricorda, per certi versi, il Frappato siciliano. Senza dimenticare che l’Areni risulta straordinario anche nella produzione dei vini rosati.

Il suo contraltare è il Voskehat (“Acino d’oro”), uva a bacca bianca capace di vini freschi e verticali, agrumati e tesi. Piuttosto comuni anche l’Haghtanak (incrocio tra Sorok Let Oktyabrya e Saperavi, con la prima varietà che, a sua volta è ottenuta dal crossing di Kopchak e Alicante Anri Buch) e il Khndoghni (Sireni). Nel calice li accomuna un frutto scuro ancor più che rosso, tannini pronunciati, ottima struttura, spezia (pepe) e un gran potenziale in termini di affinamento.

Frammenti macroscopici del puzzle infinito che è l’Armenia del vino, nel 2023. Polvere divenuta asfalto, come davanti alla casa in cui è cresciuto Aram Machanyan. Estrosa come quel campo di pallavolo improvvisato con un filo bianco, a un metro e mezzo d’altezza, in mezzo alla via; nella periferia di una Yerevan che, oggi, è anche un po’ la periferia del mondo. Così lontana, eppure sempre più vicina al centro, purché ce ne si accorga. Quasi un dovere, adesso che è più difficile sbucciarsi le ginocchia. Kenats.

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