Oche e cavalli in vigna, non son tutte rose e fiori: parola di Roberto “Ironman” Di Filippo

Tre incidenti per il vignaiolo umbro, all’inizio della sua avventura biodinamica: “Serve molta consapevolezza”


Le oche che passeggiano in vigna e i cavalli usati per trainare l’aratro, al posto dei trattori. Immagini idilliache, degne di paesaggi bucolici pennellati da Vincent Van Gogh, John Constable o William Turner. Eppure, chi pensa che la biodinamica sia il Mulino Bianco della viticoltura, deve ricredersi. Una chiacchierata con Roberto Di Filippo e, puff. Le cose appaiono da un’altra prospettiva. Courbetiana.

Due gravi incidenti – più un terzo finito bene – non hanno scalfito gli ideali di questo temerario vignaiolo umbro, che nella sua Cannara (PG) conduce dal 2009 30 ettari di vigneto certificati biologici, secondo i principi della viticoltura biodinamica. Cornoletame e fasi lunari, dunque. Ma soprattutto oche (circa 400) e nove cavalli, su 4 ettari.

Animali con cui Roberto Di Filippo è entrato ormai in simbiosi. Potesse parlare, lo confermerebbe pure Bebè, il suo “cavallo preferito”. Un amore forte come il titanio. E non si tratta di un eufemismo.

“Sono una specie di RoboCop o Ironman– scherza il vignaiolo di origini salernitane – ho tre viti e un chiodo di titanio di quasi mezzo metro nella gamba. Non suono in aeroporto solo perché è metallo puro! Il dottor Roberto Valieri, che mi ha operato per due volte a Perugia, dice che è orgoglioso di me e di come sono andate le operazioni”.

La cronaca dei due incidenti è per cuori forti. “Non avevo molta esperienza nell’addestramento dei cavalli – racconta Di Filippo – e stavo addestrando Bebè, arrivato da noi da puledro. Era il 18 aprile 2014. Lo stavo guidando a redini lunghe in un filare, tirando un tronco da 200 chilogrammi”.

“All’improvviso si spaventa per una macchina e inizia a correre. Cerco di fermarlo, ma mi rendo ben presto che non riesco a tener testa al suo peso: circa una tonnellata. In un attimo mi trovo a terra, steso. Guardo la gamba e la vedo girata a 45 gradi: tibia e perone fratturati”.

Attorno inizia ad accalcarsi il personale della cantina Di Filippo, oltre ad alcuni passanti. “Istintivamente, ho preso la gamba e me la sono raddrizzata da solo. Le ossa avevano riportato una frattura netta, composta ma non esposta. Tuttora chi ha assistito a questa scena la ricorda con orrore! In realtà ho agito per istinto, per via di tutta l’adrenalina che avevo in corpo”.

Di lì a due mesi, Roberto Di Filippo è di nuovo in piedi, grazie a una placca di titanio nella gamba. “Zoppicavo ancora quando gli amici di Castello di Tassarolo mi hanno convinto a partecipare a una gara con il cavallo, che prevedeva un percorso a gincana, con un tronco lungo 6 metri. Sono riuscito incredibilmente ad arrivare primo”.

Il secondo incidente, però, è dietro l’angolo. “Stavo addestrando Bebè, questa volta su un trailer costruito da me, sempre secondo i principi dell’agricoltura biodinamica. Un’auto fa manovra, Bebè si spaventa e parte: va incontro a delle pietre, a tutta velocità. Rischiavo di essere catapultato fuori dall’attrezzo, quindi sono saltato giù, atterrando proprio sulla gamba già ammaccata. Risultato? Frattura del piatto tibiale“.

All’ospedale lo stesso medico, ma il pensiero di Roberto Di Filippo è un altro: “Adesso come lo dico a mia moglie?”. “La stessa cosa che mi è frullata nella testa di lì a pochi mesi – ammette il vignaiolo di Cannara – quando, nel tentativo di dividere la vecchia cavalla Olga in calore e Diamante, uno stallone, mi sono preso un calcio che mi ha scaraventato a 3 metri. In quel caso, solo tanto dolore”. Matrimonio salvo, un’altra volta.

“Sono ferite di guerra – scherza Di Filippo – che valgono però come monito a chiunque pensa che la viticoltura biodinamica sia tutta rose e fiori. Gli incidenti, d’altro canto, sono avvenuti quando non avevo ancora una grande esperienza nell’addestramento dei cavalli”.

“Oggi come oggi – rassicura il produttore – Bebè è affidabilissimo, come tutti i cavalli che usiamo per condurre i turisti in giro in carrozza. Merito anche di Daniele Cardullo, addestratore di fama nazionale che ci affianca nelle attività in campo”.

Non ci si può improvvisare viticoltori biodinamici – ammonosce Roberto Di Filippo – e va ricordato che la biodinamica non comporta necessariamente l’utilizzo di animali. Ai giovani dico: diventate agricoltori, siate vignaioli autentici, duri e di testa dura. Ma sappiate che è dura. Dobbiamo riumanizzare l’agricoltura e la viticoltura”.

“L’importante – aggiunge il vignaiolo umbro – è recuperare la nostra identità di agricoltori, che ormai abbiamo perso. La biodinamica si è ormai evoluta in biotecnologia: non è detto che tutte le tecniche originarie siano ancora perfette. Il mio è un approccio molto pragmatico, per certi versi olistico e umanistico”.

I VINI DELLA CANTINA DI FILIPPO

Occasione della chiacchierata con Roberto Di Filippo è stata la presentazione della gamma di vini di Cantina Di Filippo, lunedì 14 ottobre al ristorante Tiraboschi 6, a Milano. Perfetti gli abbinamenti con i piatti dello chef Gianluca Panigada.

La schiettezza di Di Filippo appare evidente anche nei calici. Al centro l’assoluta riconoscibilità dei vitigni, grazie all’applicazione di principi vicini al mondo del “vino naturale”, ma senza gli estremismi che accontentano ormai solo una schiera sempre meno nutrita di ultrà vinnaturisti.

Scordiamoci che fare vino naturale significhi lasciare tutto in mano alla natura – sottolinea Roberto Di Filippo – perché piuttosto è vero l’opposto. Chi rinuncia alle pratiche enologiche più comuni deve essere ancor più bravo e più preparato degli enologi.

I vignaioli come me sono passati dall’essere considerati i freak del biologico degli anni 80, ai freak delle oche e dei cavalli dei tempi moderni. Quello che non si dice, è che per la gran parte di noi il progetto in vigna ha una base scientifica forte, reale, documentata da anni di studi e di applicazioni”.

Che il focus sia sulla ricerca della tipicità lo si capisce sin da subito: dal Grechetto frizzante Igt dell’Umbria 2018 (92/100) che si rifà al mondo dei “Col Fondo”. Molto più di una versione umbra del “Prosecco delle origini”.

Malafemmena” – questo il nome di fantasia, in onore di Antonio “Totò” De Curtis – è di fatto uno dei frizzanti più centrati nel panorama enologico italiano, fuori dai confini di un Veneto che ha fatto da apripista.

Si prosegue con due versioni di Grechetto dell’Umbria Igt, una delle quali “Senza solfiti aggiunti” (90/100). A convincere maggiormente è proprio questa etichetta, che appare più diretta e senza fronzoli.

Al frutto esotico risponde la vena “dura” e “cruda” tipica del vitigno: muscolo e chiusura leggermente amarognola, al limite della percezione tannica. Il tutto in un quadro comunque equilibrato, che stimola la beva. Ancora più accentuata la vena fruttata nel Grechetto “convenzionale” (87/100) in vendita anche nei supermercati NaturaSì.

Il viaggio continua nell’universo dei vini rossi di Cantina Di Filippo. Grazie a un lavoro scrupoloso in vigna, Roberto “Ironman” riesce a portare nel calice due etichette di grandissimo valore. Per motivi differenti.

Colpisce la prontezza di beva del Montefalco Sagrantino Docg 2015 “Etnico” (91/100) classico vino in grado di accontentare sia il palato più accorto e “tecnico” sia il palato del semplice amatore. Tannino presente ma disteso e maturità perfetta del frutto, parlano della scelta perfetta nell’epoca di raccolta delle uve.

Fondamentale anche il lavoro in cantina, dove Di Filippo effettua la macerazione di una notte su un terzo della massa, mentre la parte restante viene vinificata in rosso, in maniera classica: l’obiettivo è estrarre esclusivamente colore e primari (frutto e varietale), per poi effettuare l’assemblaggio.

Non poteva mancare una versione più “tradizionale” del noto rosso umbro, offerta dal Montefalco Sagrantino Docg 2015 (94/100) la cui bottiglia è contraddistinta dal medaglione centrale, color argento.

Un vino di eleganza assoluta, che sfodera – come nella migliore delle attese – una complessità maggiore di quella di “Etnico”. È il Sagrantino classico, quello da aspettare per lo meno cinque anni prima che inizi a trovare il suo equilibrio, nella sua crescita verso l’apice della “forma”.

Alle note nette di sottobosco si accosta una vena minerale, che ricorda la pietra focaia. Il tannino è naturalmente ruvido, ma evidenzia tutta la sua natura nobile nel controbilanciare la vena fruttata del sorso. Un altro vino che si fa bere con facilità, se accostato al piatto giusto.

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***DISCLAIMER*** L’articolo è frutto di un pranzo-degustazione organizzato per la stampa dalla cantina e dal relativo ufficio stampa. I commenti espressi sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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