Vino e cambiamenti climatici: cresce la domanda globale di acido tartarico

Viene utilizzato per regolare il pH o esaltare la sapidità. Gily: “È una pezza, non una soluzione”


La domanda globale di acido tartarico sintetico, tra gli ingredienti consentiti per la produzione di vino, crescerà del 4,8% nei prossimi 8 anni. Il giro d’affari è di 531,4 milioni di dollari dalla fine del 2018 e registrerà un tasso annuo di crescita del 4,8% nel periodo 2019-2027.

Lo riferisce uno studio condotto dalla società di consulenza statunitense Persistence Market Research (Pmr). I dati hanno a che fare principalmente con i cambiamenti climatici, che costringono i viticoltori di tutto il mondo a fare i conti con livelli più alti di pH. Dunque minore freschezza, essenziale soprattutto nei vini bianchi.

L’acidità è infatti correggibile con l’aggiunta di acido tartarico, regolamentata da precise normative, diverse in base all’area geografica. Il rapporto statunitense, tuttavia, “fornisce una valutazione del mercato globale dell’acido tartarico sintetico e la sua suddivisione sulla base di diversi tipi di applicazioni”.

Non si parla, dunque, solo di enologia, ma anche – per esempio – del segmento dei prodotti da forno, per mantenere la qualità del prodotto e prolungarne la shelf-life. A contribuire all’incremento sarà anche l’industria farmaceutica, che lo utilizza nella preparazione di compresse effervescenti, polveri e granulati.

L’ACIDO TARTARICO NEL VINO

“Negli ultimi anni – evidenzia lo studio del Persistence Market Research – abbiamo assistito a un significativo aumento del consumo di vino in tutto il mondo. Per soddisfare questa domanda e mantenere alta la qualità, la domanda di additivi, come regolatori del pH ed esaltatori di sapidità per citarne solo alcuni, è aumentata”.

“L’acido tartarico sintetico – ricorda Pmr – viene utilizzato come regolatore del pH nell’industria vinicola. Pertanto, a causa della crescente produzione di vini in tutto il mondo, la domanda di acido tartarico sintetico dovrebbe aumentare, nel periodo di previsione”.

Un fenomeno che, secondo la ricerca americana, sarà favorito dagli “sforzi delle varie agenzie governative e ministeri preposti in ogni nazione, volto a semplificare il processo di approvazione dell’utilizzo di eccipienti, che spingerà ulteriormente la crescita del mercato dell’acido tartarico sintetico, dai costi non eccessivi”.

L’aumento della domanda e del consumo di alternative a base biologica ed ecologica, specie in Europa e Nord America “ostacolerà la crescita del mercato dell’acido tartarico sintetico tra il 2019 e il 2027”. Vino e farmaci guideranno il boom, con un tasso annuo di crescita compreso tra il 4,7% e il 5,1%.

Un ruolo da gigante sarà giocato, come prevedibile, dalla Cina. Nel Paese del Dragone, il mercato dell’acido tartarico sintetico avrà una quota dominante, sia in termini di mercato che di indice di crescita. Interessanti, sempre secondo lo studio statunitense, le previsioni che riguardano l’India.

Dalle parti di Nuova Delhi il mercato è “più frammentato, ma costituirà un alto valore aggiunto, sia nel settore del vino sia in quello farmaceutico”. Europa occidentale e Nord America sono invece considerati “mercati relativamente maturi”.

“Pertanto – evidenzia Persistence – si prevede che registreranno un tasso di crescita moderato. Si prevede inoltre che i paesi dell’America Latina e dell’area del Golfo rimarranno redditizi tra il 2019 e il 2027”.

IL COMMENTO DELL’AGRONOMO MAURIZIO GILY

“L’utilizzo di acido tartarico in enologia – commenta l’agronomo Maurizio Gily (nella foto) – è da considerarsi una pezza, più che una soluzione. Manca acidità? La metti. L’acido tartarico, del resto, è già presente nel vino e la sua aggiunta, consentita come quella dell’acido citrico, costituisce un intervento meno invasivo rispetto a tanti altri”.

“Nonostante ciò – continua Gily – la previsione di crescita con cifre così circostanziata pare un po’ un azzardo, pur essendo più che probabile l’aumento dell’utilizzo di acido tartarico in enologia, per via soprattutto dei cambiamenti climatici, ma anche di altre ragioni legate alle scelte compiute nella selezione clonale o nel risanamento da virus”.

In Italia, il problema dell’acidità dei vini ha generalmente riguardato le regioni del sud. Oggi il fenomeno coinvolge anche il nord, perché il clima è cambiato. Le uve maturano di più e si riduce l’acidità.

“Nel Nord Europa è vietato aumentarla – ricorda Gily – così come nel sud diminuirla. I cambiamenti climatici, a tal proposito, aprono alla necessità di rivedere questi criteri. In Borgogna, Champagne e Loira, così come in Germania, sono ormai all’ordine del giorno i problemi di acidità troppo bassa”.

Nei vitigni a maturazione precoce come Müller Thurgau o Pinot Bianco, l’acidità crolla a causa delle alte temperature. “Giusto dunque aprire un dibattito per rivedere le normative relative ai trattamenti di acidificazione e disacidificazione, che comunque devono essere annotate sui registri, se effettuati”.

È quanto prevede la legge, proprio per evitare che l’aggiunta di acidi organici diventi uno strumento appannaggio dei sofisticatori e dei professionisti dei vini fatti “col bastone”. Maurizio Gily suggerisce però altre soluzioni, alternative e, per certi versi, drastiche.

“Il modo migliore per ottenere un buon equilibrio tra acidità e zucchero è scegliere i vitigni giusti nell’ambiente giusto, in questo momento di clima impazzito. Pianti il Pinot Bianco in Calabria? Beh, aspettati un’acidità ridicola”. L’esempio, secondo il noto agronomo piemontese, arriva dai Paesi del Nuovo Mondo.

“Diversi produttori dell’Australia o del Sud America – spiega Gily – stanno propendendo per l’impianto di vitigni autoctoni del Sud Europa o della Francia del Sud per rispondere all’esigenza di di una naturale freschezza dei vini, legata a una buoan gradazione alcolica”.

Ecco dunque la riscoperta di vitigni come il francese Mourvedre, diffuso in Provenza, o il Verdelho spagnolo. O, ancora, Negroamaro, Primitivo, Verdicchio e Vermentino, tipici del centro sud Italia. “L’acido tartarico – conclude Maurizio Gily – è un rimedio che funziona fino a certo punto, perché salifica e precipita, non è soluzione perfetta”.

Un palliativo, insomma, che si riflette poi nelle caratteristiche organolettiche del vino. L’acidità aggiunta, come conferma lo stesso Gily, si percepisce come qualcosa di scomposto e separato dal resto dei descrittori.

Una freschezza che non pare “naturale”, unita solitamente a un finale – e dunque a un retrogusto – tendenzialmente amaro. Semplici campanelli d’allarme, senza certezze che può garantire solo un esame di laboratorio.

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