Tutto quello sappiamo sul Nebbiolo

Lo studio dell’Istituto per la Protezione sostenibile delle piante (Ipsp), presentato da Anna Schneider

Genitori sconosciuti, qualche fratello “di sangue”. Ma anche diversi “fratellastri” sparsi per il Nord Italia. Oltre a un paio di dettagli che gli impediscono di diventare un vitigno mainstream, coltivato con successo anche fuori dall’Italia: è difficile non solo da coltivare, ma anche da vinificare. È in estrema sintesi tutto ciò che sappiamo (per ora) sul Nebbiolo.

Ne ha parlato l’ampelografa dell’Istituto per la Protezione sostenibile delle piante (Ipsp) Anna Schneider, in occasione del primo dei due seminari online organizzati dal Consorzio Albeisa, dal titolo “La famiglia del Nebbiolo e le relazioni genetiche con altri vitigni del nord-ovest d’Italia”.

Un focus proveniente da una più vasta ricerca condotta da Schneider assieme ai colleghi dell’Ipsp-Cnr Stefano Raimondi, Giorgio Tumino, Paolo Ruffa, Paolo Boccacci e Giorgio Gambino.

Lo studio chiarisce innanzitutto l’origine “molto probabile” del Nebbiolo nel Nord Italia, nella fascia che va dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia. In particolare, dal momento che la prima traccia scritta del vitigno risale al 1266, alle porte di Torino, si può affermare con ottime probabilità che il Nebbiolo sia piemontese.

FRATELLI E “FRATELLASTRI” DEL NEBBIOLO
Eppure, individuare i genitori della nobile cultivar che dà vita ad alcuni tra i vini italiani più rinomati al mondo, come Barolo e Barbaresco, è quasi una mission impossibile.

«Dopo molte analisi – ha rivelato Anna Schneider – abbiamo buone ragioni di ritenere che entrambi siano ormai scomparsi. Ma il Nebbiolo ha molti fratelli, come Nebbiolo rosé e Pignola e Rossola Nera. Nonché “mezzi fratelli”, cioè varietà che condividono uno solo dei genitori, come Refosco, Teroldego, Marzemino, Ortrugo e Spergola».

Il Nebbiolo ha dato origine a due gruppi di vitigni, tra “discendenti diretti” e “fratelli-fratellastri”. «Il primo gruppo fa capo al Piemonte – ha precisato l’ampelografa – il secondo in Lombardia, in particolare in Valtellina, dove è noto come Chiavennasca, nella zona Nord Est con Teroldego, Refosco e Marzemino e a nord degli Appennini, con Spergola e Orsanella». Di quest’ultima uva si parla anche in Oltrepò pavese, così come sui Colli Piacentini.

Tra i “figli del Nebbiolo” anche vitigni conosciuti come Vespolina e Freisa. Ma risulta abbia dato origine anche ad Arneis e Grignolino, attraverso un genotipo forse ormai istinto che li renderebbe suoi “nipoti”.

IL METODO
La ricerca è partiti dall’analisi di circa 200 varietà tradizionali presenti nel Nord Ovest dell’Italia. Dapprima gli studiosi hanno cercato di identificarne le correlazioni.

In seguito lo studio è stato allargato ad oltre 600 vitigni presenti in Europa, nella fascia che va dalla Spagna all’Ungheria e all’areale balcanico, con l’idea che qualcuno di questi avesse contribuito a germoplasma di regioni Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia.

Attraverso l’analisi delle relazioni genitore-figlio, ma anche delle relazioni full-sibling (ovvero tra fratelli) e half-sibship (quelle tra “fratellastri”) il team di cui ha fatto parte Schneider ha potuto stabilire un vasto network di vitigni, che comprende molti in abbandono o prossimi alla scomparsa.

È così emerso che «tutto sommato pochi vitigni hanno danno origine a molti altri, costruendo appunto il netwotrk noto oggi». Un patrimonio ampelografico che comprende vitigni come Baratuciat, Slarina e Malvasia Moscata, già messi in produzione da alcuni coraggiosi produttori piemontesi, con ottimi risultati e potenziale dal punto di vista dell’analisi gusto-olfattiva (ne è vietata comunque la menzione in etichetta).

A supportare il Cnr e le attività di recupero di queste rare varietà è il “vigneto-collezione” di Grinzane Cavour, che su una superficie di 1,2 ettari comprende oltre 450 cultivar rare, in particelle di 5 piante ciascuna.

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