Eppure, anche tra gli chef, c’è chi se ne fotte della stella Michelin

Stella sì, stella no. Questo è il dilemma in un’Italia che si ritrova ancora una volta a perder tempo dietro all’estetica del nulla, piuttosto che ai contenuti della sostanza. E così, un ironico post su Facebook della giornalista Milena Gabanelli sulla pagina Dataroom (vedi sopra) viene trasformato in una caso nazionale.

“Un attacco alla categoria degli chef“, scrive qualcuno (di parte). “Gente che si fa il culo, come gli chef, denigrata nel nome del populismo”, secondo altri. Secondo noi, invece, l’ennesima occasione persa da qualcuno per tacere. O, per lo meno, per aprire un dibattito serio (e dunque super partes) su un tema che cela (e ribadiamo il concetto: “cela”) risvolti culturali profondi.

Quel che nessuno ha ancora scritto – e che scriviamo noi, che giornalisticamente corretti vogliamo essere per partito preso – è che pure tra gli chef di professione c’è chi se ne fotte della stella. Avete letto bene: non gliene può fregare di meno.

STELLATI O ASSOGGETTATI?
Non tutti quelli che studiano “cucina” in giro per il mondo aspirano a sottostare (perché di questo si tratta) alle regole “chic” necessarie per entrare nell’Olimpo degli “chef stellati”.

Porzioni “ridotte”, tavoli separati da “tot centimetri”, di quella forma lì. E “tot” coperti. Altrimenti non va bene: anche se sei il Cristiano Ronaldo dei fornelli, non sei degno della stella.

Questi sono solo alcuni dei “dogmi” da rispettare per entrare nel gotha delle star della cucina, al netto di alcune vaghe eccezioni che servono solo a confermare la regola. Nulla che abbia a che fare con la bontà assoluta del piatto, insomma.

E allora ecco perché vi assicuriamo – noi che gli stellati li frequentiamo, così come le “bettole” di periferia o i sushi club all you can eat – che anche tra i grandi chef c’è chi se ne fotte della stella Michelin.

“Fottersene” significa condannare un sistema basato in maniera predominante (e dunque premiante e pregnante) sull’estetica, che considera l’abbondanza del piatto una condanna intrinseca della qualità del piatto stesso. Il “troppo” storpia, insomma, nella cucina stellata.

Ed è proprio questo (se ne facciano una ragione i soloni della critica culinaria) l’elemento che allontana il “consumatore medio” dalla cucina stellata: le porzioni “minuscole”.

Un’estetica, cioè, basata sulla riduzione e sulla concentrazione piuttosto che sull’esaltazione di una salutare abbondanza. Vallo a spiegare a un signor Rossi qualsiasi che la cucina “di livello” è prima di tutto un’esperienza, o un “viaggio” tra i sapori più ricercati.

“Ho dovuto rinunciare alla stella Michelin, che più volte mi è stata prospettata, per via della lista di prescrizioni necessarie ad ottenerla. Se avessi deciso di apportare le modifiche richieste al mio ristorante per ottenere la stella Michelin, oggi il locale non sarebbe pieno come lo vedete. E avrei chiuso in pochi mesi”.

Parole e musica di uno chef (del quale, per riservatezza, non riveliamo il nome) che ha deciso di continuare sulla propria strada. Nel suo locale si mangia e si beve (divinamente) con 60 euro a persona: circa la metà di un “menu degustazione” nella maggior parte degli “stellati”.

Ma i piatti, che reinterpretano la tradizione culinaria locale, sarebbero degni di lustro internazionale. Lo stesso valore assicurato da chi, in questo ristorante di una remota provincia d’Italia, tornerà volentieri: sicuro di trovare genuinità e materie prime fresche e ricercate. E un menu degno di applausi. Stellari.

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